In Italia piace il bel gioco? Allora perché appena qualcuno dice l’opposto, cioè che la Nazionale gioca male, subito si risponde cogli almanacchi alla Trapattoni? Alla fine, i risultati contano e non ne si vuole trovare giustificazioni reali. Capello disse tempo a dietro che il calcio contemporaneo a lui non piaccia. Preferiva, quando allenava, indurre l’avversario a sbagliare, recuperare palla e verticalizzare. Ciò che importa, e lo dimostra l’Europeo stesso, è l’unica fase di gioco del calcio: la compattezza. Non esiste né attacco né difesa. La compattezza sta in qualunque stile di gioco. L’undici a spasso per il campo deve funzionare all’unisono. Ogni calciatore, coi propri istinti, è parte integrante del sistema, o metodo (visto che domani ci sarà Italia-Inghilterra), al quale si abnega totalmente, non per obbligo o costrizione, ma per sua volontà naturale. Non costruita. L’Italia non gioca un gran calcio. Non è una squadra giovane. La Spagna ha schierato, ad esempio, Pedri (classe 2002) e ha dimostrato, non di “giocare un bel calcio”, ma sprazzi di compattezza. Infatti, le Furie Rosse sono ancora acerbe sotto certi punti di vista. Bielsa disse: “L’ingiustizia è molto comune nel calcio, ma questo non toglie nulla al lavoro fin qui svolto”. “Giocare bene” è quando troviamo, perché il calcio è un libro e nulla si inventa o crea, la soluzione per una elevata quantità di occasioni da rete. Lo afferma Bielsa stesso. E, sempre lui, non prova a nessuno che la via per un “calcio migliore” sia fare pressing alto e possesso palla. Questo non significa che l’Italia debba tornare al catenaccio, ma non perdere la sua identità. Se gli altri fanno le cose migliori, è demerito nostro. Forse bisognerebbe, invece di vincere un trofeo, trovare il modo di creare un ricambio generazionale meritocratico, senza guardare al procuratore, alle bandiere. Rompere col passato, evitando paragoni o forzature. Portare la Nazionale a restare ad alti livelli per lunghi periodi. In Italia, agli italiani, piace rubare ed essere derubati. Vedere squadre dai debiti enormi vincere trofei nazionali e rendersi ridicole dove conta, a livello europeo. Felici di vincere facile e terrorizzati dal ritorno alla realtà. Realtà che non riflette sui pensieri altrui, ma riflette per sé. Un conto è “sperare” nell’errore avversario, un conto è “indurre” in errore l’avversario. Lo ha detto Bielsa, grande fautore, come dicono tutti, della filosofia del calcio contemporaneo. Lo ha detto anche Capello, catenacciaro vincente e italiano. La Nazionale di Calcio Italiana ha sperato. La grande battaglia nei nostri confini non sarà sulle idee stesse, ma sull’identità. Il calcio in Italia non cambia? Allora facciamo vincere chi merita di vincere e non chi fa business. Gli sponsor verranno dopo. La ricchezza si accumula col blasone, ma il blasone si accumula portando in alto, fuori dai confini, l’identità del popolo a cui si appartiene. La Nazionale, che vinca o perda, non sarà nulla di tutto ciò. Se non, come sempre, il vizio che distrae gli occhi. Il sogno che sostituisce la realtà. Nulla cambia. Le figure e le parole rimestano il perpetuo ritorno ad una determinata condotta (Controllo-Educazione). La storia esiste, non per perpetrare nel tempo una morale sbagliata, ma per non commetterla più. Per dimenticarsi non della Super Lega o, di gran lunga peggio, dei problemi nazionali vigenti, ma dimenticare per costruire. E non si costruisce ristrutturando.
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