Baggio: "Non riesco a liberarmi di quel rigore al Brasile"
La leggenda del calcio Roberto Baggio si racconta in una lunga intervista
Roberto Baggio ha rilasciato una lunga intervista a Walter Veltroni, sulle pagine del Corriere della Sera.
Queste le sue parole:
È difficile essere un numero 10?
“Sì, lo è sempre stato. Era già complicato ai miei tempi. Eravamo sempre discussi. Zola, ad esempio, per giocare è andato a Londra. Ora ce ne sono di meno, sono un genere in via di estinzione. Bisognerebbe stare dentro il mondo del calcio di oggi per capire le ragioni di questa eclissi della fantasia. Io non ci sono. So solo che per me quel numero corrispondeva al desiderio di fare le giocate, di inventare, di sentirsi liberi“.
Tu hai sofferto di questo processo?
“Quando giocavo in nazionale sono uscito dal Mondiale e non mi hanno più convocato. Sembrava che il calcio non avesse più bisogno di fantasia, che considerasse l’estro un reato. Tutto era finito in mano alla tattica. Le partite non le vincevano più i giocatori, le vincevano gli allenatori“.
Chi sono stati i tuoi modelli?
“Sentimentalmente Paolo Rossi. Lui giocava a Vicenza, la mia città. E io andavo in bicicletta con mio padre a vederlo. Ed era sempre uno spettacolo. Dal punto di vista del gioco mi innamorai di Zico. Lo sognavo di notte“.
Quante volte gli allenatori ti hanno gridato “Torna!“?
“Qualche volta è successo, ma io facevo finta di non avere sentito. Lo facevo, ma per aiutare i miei compagni, non per astrusi dettati tattici“.
La tua vita calcistica, quindi la tua vita da ragazzo, è stata dominata non solo dal tuo talento ma dal dolore che hai conosciuto…
“Sono stati tanti. Quello fisico, conosciuto all’inizio della mia carriera, poteva davvero costarmi caro. La sofferenza era terribile ma ho imparato a conviverci, solo in quei momenti rimetti a posto le gerarchie della vita e ne capisci il senso profondo“.
Ti ricordi quel giorno? Era il 5 maggio, data inquietante, del 1985…
“Fu un incidente stupido, avevo appena fatto gol, mi sono buttato in scivolata per un contrasto, ho toccato la palla ma quando mi sono rialzato era come se mi fosse scoppiato un ginocchio. Un dolore impensabile. Ci sono voluti due anni per tornare a giocare. Ma mi ha segnato per la vita. È stato un compagno fedele, non mi ha mai lasciato“.
Facesti in Francia un’operazione chirurgica molto difficile.
“Quando mi sono svegliato dall’anestesia e ho visto come era ridotta la gamba mi sono sentito svenire. Mi hanno tolto il muscolo vasto mediale, quello che sostiene ginocchio e gamba, ed era come se mi avessero tagliato i muscoli e ridotto la gamba. Il mio braccio era più grande della mia gamba. Avevano fatto un buco nella tibia, con il trapano, allora unico modo in cui si poteva attraversare il muscolo. Per fissarlo nella parte esterna mi misero 220 punti di sutura con le graffette di ferro. Io non potevo prendere gli antinfiammatori perché ero allergico. Se dormivo non sentivo dolore, ma da sveglio era una tortura, avevo dentro qualcosa di incandescente. Piangevo tutto il giorno, non mangiavo. Ho perso dodici chili. Quando mi svegliai e vidi la mia gamba in quello stato dissi a mia madre che, se mi voleva bene, doveva ammazzarmi“.
Ti ha perseguitato a lungo?
“Ho faticato tanto a rimettermi in piedi e a trovare la forza per ripartire. Quando stai male ti può picchiare anche un bambino. Se ti senti meglio tutto torna ad essere possibile, anche giocare al calcio con quella gamba maciullata. La passione mi ha fatto soffrire per soddisfare il mio sogno di bambino“.
Quante volte, poi, hai giocato senza sentire dolore?
“Poche, davvero poche. Ho avuto sei operazioni al ginocchio nella mia carriera, non mi sono fatto mancare nulla. A Brescia la mattina mi svegliavo chiedendomi quale dei due mi avrebbe fatto meno male quel giorno. È stata dura, davvero. Ma ne è valsa la pena, eccome. E forse nel mio modo di giocare c’era il segno di quella fatica. E anche il fatto che oggi sia così sereno, a posto con la mia coscienza e il mio passato, felice di quello che provo, forse ha le sue radici nella sofferenza e nella lotta per vincerla“.
Quante botte hai preso, con il modo che avevi di saltare facilmente l’avversario?
“Noi attaccanti o giocatori di fantasia non eravamo protetti. Ora, se ti prendono per la maglia il difensore è ammonito. Per noi l’entrata da dietro era punibile a discrezione dell’arbitro. Una follia. Guarda la punizione. Oggi la barriera è a nove metri e quindici, persino con la schiuma per terra. Quando battevamo noi stava a sei metri, poi venivano avanti e saltavano pure. È cambiato, giustamente“.
Qual è la partita che vorresti rigiocare?
“La finale dei mondiali del 1994 a Pasadena, Italia-Brasile. Non la posso dimenticare. Quella sì vorrei rigiocarla. Siamo arrivati un po’ cotti, avevamo fatto i supplementari con la Nigeria e mezz’ora in più, a quelle temperature, ti stronca. Se fossimo stati più lucidi forse sarebbe stata un’altra partita“.
Cosa hai fatto dopo aver sbagliato quel maledetto rigore?
“Cercavo un badile, mi volevo sotterrare, cazzo. Mamma mia, mamma mia. Non si possono cancellare cose così. Quella partita, proprio Italia-Brasile, l’avevo sognata e immaginata tante volte quando ero bambino. Avevo tre anni ma la sconfitta del 1970 non riuscivo a dimenticarla. Volevo vendicare Riva e gli altri. Era il mio sogno, davvero. E quando è finita così mi è crollato il mondo addosso“.
Sempre ai Mondiali, ma a quelli del ’90 e del ’98 tu facesti due tiri meravigliosi contro Argentina e Francia che, se non fossero andati fuori di poco, avrebbero cambiato la storia azzurra. Quelli sono io a non dimenticarli…
“Non sono stato fortunato. Ho fatto tre mondiali in cui sono uscito sempre per i calci di rigore. Il tiro con la Francia, se fosse entrato, ci avrebbe portato in semifinale con la Croazia, allora c’era ancora il golden goal. Fu un’azione bellissima, un lancio di Albertini, ma io sbagliai a colpire al volo, volevo anticipare Barthez che mi stava venendo addosso ma lui ha fatto un passo in avanti e poi si è fermato. Se avessi aspettato che rimbalzasse, poi potevo metterla dove volevo“.
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